domenica 2 novembre 2008

Alberi


Mi trovavo nei ripidi boschi dei nostri Appennini in cerca di funghi. A dire il vero sapevo bene che non era ancora stagione, ma mi era sembrata un'ottima scusa per muovere questi muscoli impigriti e costringerli a fare il lavoro per il quale erano stati creati.

Era metà mattina di una giornata di giugno, il sole un po' velato, l'aria fresca notturna che ancora stagnava tra gli alberi, la maggior parte castani. I profumi umidi del bosco gratificavano le mie narici mentre in distanza una poiana richiamava con grida rauche il suo compagno o invitava il suo pulcino a librarsi in volo a fianco a lei. Più vicino si sentiva il ritmico battere di un picchio su un tronco cavo.
Giunto sul versante prospiciente il paese, distante in linea d'aria meno di un chilometro, mi fermai come al solito per poterlo abbracciare con un unico sguardo.
I tetti rossi, qualche camino fumante, il latrato di un cane. Tutto sembrava là a portata di mano, ma ci sarebbe voluta più di un'ora di cammino per raggiungerli.
Sarei dovuto scendere fino al torrente, trovare le giuste pietre, quelle grosse e piatte e ben ferme per attraversarlo senza bagnarmi i piedi, cercare tra i cespugli di vimine selvatico l'attacco del sentiero e risalire senza fretta. Che tanto a destinazione ci si arriva tutti, l'importante è godersi il viaggio.
Così cercai con cura un tronco abbattuto dove sedermi per fumarmi la meritata sigaretta, riposare e fantasticare incuriosito su quale ragione recondita poteva aver spinto i primi coloni a piazzarsi proprio in quel luogo.

All'improvviso mi sentii chiamare. Non una voce o un rumore. Qualcosa di diverso. Più silenzioso. Più intimo. Mi voltai e vidi un castano che fino a quel momento non avevo notato.

Doveva avere centinaia di anni. Il grosso tronco contorto e piegato verso valle poggiava su radici che fuoriuscivano dal terreno come le vene dalla mano di un vecchio. A metà altezza aveva una profonda cavità scavata forse inizialmente dalla rottura di un ramo, poi dalla putredine, poi dagli scoiattoli che l'avevano abitato lasciando tra le nicchie della spessa corteccia frammenti di gusci di nocciole.
Mi alzai quasi infastidito da quella non richiesta intromissione nei miei pensieri. Mi avvicinai. E a quel punto lui cominciò a parlarmi.

Mi parlò del vento primaverile che scuote i suoi rami giovani facendoli danzare gioiosi durante i Giorni della Festa di Primavera, del vento estivo che asciuga la linfa e prepara le foglie al cambio di livrea, di quello autunnale che porta la pioggia violenta che nutre la terra ma che le uccide strappandole ad una ad una e le trasforma nel cuscino dove si poserà la prima neve, e la seconda, e anche la terza e la quarta, nevi portate dai venti gelidi dell'inverno, folate che ghiacciano la nebbia nel sudario trasparente che copre la pietra, il legno, il cuore, ghiaccio che appesantisce i rami fino a spezzare i più giovani che nella buona stagione hanno osato protendersi oltre il dovuto. E poi ancora del vento primaverile che scuote con gioia i rami rimasti.
Mi parlò delle tante coppie di scoiattoli che aveva ospitato, che in cambio di un riparo caldo e asciutto gli avevano regalato repentini guizzi di energia vitale, frenesie, nascite, morti, gemiti, amori, richiami di cuccioli.
Mi parlò del paesaggio che vedeva e sentiva da quando era nato, sempre uguale e sempre diverso, di tutte le sfumature dei colori dell'erba, dell'esplodere della vita a primavera, di quanti soli aveva visto sorgere e tramontare, di quante volte la luna l'aveva baciato con i suoi raggi facendo capolino tra le nubi, di quante stelle nelle gelide e terse notti invernali avevano ammiccato con complicità a lui, silenzioso e addormentato, ed ai suoi rami spogli.
Mi parlò delle sue radici che di nascosto si intrecciano con quelle degli altri castani, dei faggi, dei noccioli, delle querce, si abbracciano al micelio dei funghi buoni e cattivi, si intersecano con le radici del rovo, dell'edera, della gramigna, della viola, della fragola di bosco.
Mi parlò dell'attimo e dell'eternità, del mio tempo che è nulla a confronto del suo, del tempo della farfalla che è nulla a confronto del mio, del tempo dell'universo, che pare infinito a confronto con tutto il resto.

Mi parlò di tante cose ancora l'antico gigante e mi fu amico. E l'abbracciai con le mie corte braccia umane non riuscendo neanche a circondarne la metà. Appoggiai il viso alla sua ruvida scorza. Lasciai fluire dentro di me il suo sapere, la sua saggezza, la sua forza, la sua serenità, e divenni sua parte, suo tronco, suo ramo, sua foglia. Mi abbandonai fremente alla brezza, mi lasciai baciare dai caldi raggi del sole, sentii scorrere dentro di me la verde linfa che mi nutriva.
Divenni albero.

Restai lì a lungo e quando me ne staccai, si era fatto tardi ed era ora di tornare a casa, mentre mi voltavo, lui, ci giurerei, mi fece l'occhiolino.

7 commenti:

enne ha detto...

Un altro bellissimo racconto, Beyk.
Immodestamente ricordo un tema scolastico svolto in seconda elementare, che vinse non so quale premio: in quel tema parlavo con un pino.
:-)

JANAS ha detto...

BELLISSIMO!
mi porti con te dove parlano gli alberi?

Sembra che siamo così in sintonia, che nella parte finale del tuo poetico racconto mi hai ricordato una cosa che scrissi tempo fa ad un amico con cui mi ero molto molto incavolata...ma e troppo lunga così ti riporto solo l'ultimo verso:
(http://sojanas.blogspot.com/2008/03/entrare-nella-profondit-delle-cose.html
Ma occorre strisciare ...
strisciare per capire il verme; come il serpente cambiare pelle per crescere,
vestirsi di piume come un uccello...
per capire l'eternità di un albero
conficcare i piedi nella profondità della nuda terra, farne radici
diventare legno - immobile, lasciando al vento solo agitare le folte chiome,
aperte come le tue braccia
e sentirti albero finalmente!
(settembre 1997 - Janas)

Jean du Yacht ha detto...

Ora capisco perchè non sopporti i falegnami!
e le seghe, ovviamente;)

beyk happel ha detto...

Bis, cancella l'immodestamente, che tu scrivi da pelle d'oca!
E che gli dicevi al pino? ;)

Janas, certo che si!
Organizzo? ^_^
Bella bella anche la tua, pensa che un amico lo apostrofavo sempre "anellide".

Jean, ricordi quando stavamo salendo i tornanti verso Pejo?
Che i boschi si erano ormai diradati e quando passammo davanti ad una radura con un albero solitario tu esclamasti "Pino! Cosa fai qui!"
E che quando lasciammo Malè alle nostre spalle esclamasti ancora "Qui si va di Malè in Pejo!"?

enne ha detto...

Sono passati tanti anni, Beyk...

JANAS ha detto...

organizziamo organizziamo...in primavera va bene?

beyk happel ha detto...

"Sembra che siamo così in sintonia" ... è lo stesso pensiero che mi è balenato la prima volta che ho visto le tue foto.
Evidentemente abbiamo quantomeno occhi simili. ;)

Primavera 2009, segnato. :D

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