
Aveva sempre avuto un rapporto strano con la caccia.
Da bambino era solito andare con i suoi piccoli amici sulle colline a ridosso della valle (dove a quei tempi suo padre saliva a cacciare gli uccelli di passo nelle brumose e fresche mattine autunnali) a tagliare, dopo averle scelte con cura, le biforcazioni dei rami giovani di frassino per farci le fionde con le quali sarebbero andati poi a caccia di lucertole.
Bisognava spellarli quei legni, sagomarli arrotondandone le estremità, intagliarne leggermente le due superiori, legare le stesse con filo di ferro ed essiccarle sul focherello di legna secca o sul fornello a gas di casa, se le mamme lo permettevano, fino a far loro prendere la forma voluta, quindi montarle legandone con precisione gli elastici, quelli marroni a sezione quadrata comprati in cartoleria, ed il piccolo lembo di pelle che avrebbe accolto il proiettile.
Se le lucertole erano la preda comune, il ramarro era quella regina, anche perché passeri e affini ben raramente li lasciavano arrivare a tiro. Ma con i grossi rettili non era facile. Innanzi tutto perché molto più rari, diffidenti e veloci, poi perché il loro habitat era costituito da prati, bassa vegetazione ed intricati cespugli dove si nascondevano rapidamente al primo movimento sospetto. Quindi, chi aveva la fortuna di ucciderne uno, veniva considerato all'unanimità il tiratore più bravo.
Ben presto le fionde furono accantonate per lasciare il posto alle carabine ad aria compressa; prima quelle a pallini di gomma e poco dopo quelle a pallini di piombo, decisamente molto più precise ed efficienti. Con questo strumento era sufficiente appostarsi anche a dieci metri di distanza che, era certo, ogni tiro sarebbe stato un centro. Nessun ramarro aveva però fatto parte del suo carniere fino a quel momento e ciò era per lui motivo di rammarico.
Un giorno, percorrendo un sentiero, perfettamente calato nelle vesti del cacciatore di safari, vide uno splendido e grosso maschio posato su di una roccia scoperta, in bella vista, a meno di tre metri, immobile a scaldarsi al sole, finalmente a tiro, e lentamente si portò la carabina alla spalla assaporando già il trionfo con gli amici. Ma nel momento in cui la sua fiera testa squamosa collimò con il mirino, l’animale si accorse di lui e alzando il capo si voltò a squadrarlo. Fu allora che notò i suoi neri occhi intelligenti e senza paura, la sua giogaia gialla rossa e azzurro vivo del periodo degli amori, il suo collo pulsante del ritmo del suo cuore; e il dito indice gli si bloccò. I secondi passarono lenti e quando infine premette il grilletto vide schizzare schegge di pietra e polvere a qualche centimetro dal capo del sauro ed un istante dopo lui non c'era più.
Tornò a casa deluso per la pessima mira e deciso a non farne parola con nessuno, ma quando la sera fu preso da improvviso impulso e cominciò a raccontare tutto al padre, questi sorridendo gli disse con semplicità: - Non hai sbagliato mira, semplicemente non l'hai voluto ammazzare. E non c'è proprio nulla di cui vergognarsi. -
Molti anni più tardi si ritrovò con un amico a cacciare fagiani nei brumosi e sconfinati coltivati di pianura.
Avevano con loro un vecchio e zoppicante bracco, ciononostante ancora incredibilmente efficiente e ridondante di regale dignità, perché il passare degli anni gli aveva donato una saggezza e un’esperienza tali da renderlo perfettamente consapevole della propria bravura. Il magnifico ausiliario si bloccò in ferma ad una trentina di metri da lui con la coda parallela al terreno e la zampa anteriore destra sollevata. Mentre l’uomo si avvicinava gli diede una rapida occhiata e giudicandolo sufficientemente vicino fece un veloce movimento togliendosi dalla linea di tiro e portandosi ad angolo retto rispetto alla retta immaginaria tracciata tra lui e la preda. Quando fu a pochi passi si mosse ancora una volta mettendosi di fronte a lui continuando a guardare fisso una stoppia giusto a metà strada tra i due. Per l’uomo continuò ad essere impossibile scorgere qualcosa di diverso tra quell'erba secca e quelle zolle di terra ma fu sufficiente che sussurrasse un "Vai!" per far scattare il quadrupede ad alzare in volo un magnifico fagiano.
Come diceva il suo caro amico, "...il divertimento finisce quando premi il grilletto...".
Quella stessa mattina una scorribanda del loro compagno a quattro zampe fece partire in corsa sfrenata ad una trentina di metri davanti a loro una gigantesca lepre. Imbracciare la doppietta fu un attimo, mirò davanti all'animale in fuga dando il giusto anticipo e ... non sparò. - Perché non hai sparato! - lo redarguì deluso il suo compagno; - Era fuori tiro…. - rispose. -
In realtà in quella frazione di secondo aveva notato che sulla linea di tiro (a più di cento metri però) vi era una fattoria e si era anche incantato ad ammirare l'eleganza armoniosa della corsa della grossa lepre.
Ma, più di ogni altra cosa, gli era tornato in mente il ramarro.
Da bambino era solito andare con i suoi piccoli amici sulle colline a ridosso della valle (dove a quei tempi suo padre saliva a cacciare gli uccelli di passo nelle brumose e fresche mattine autunnali) a tagliare, dopo averle scelte con cura, le biforcazioni dei rami giovani di frassino per farci le fionde con le quali sarebbero andati poi a caccia di lucertole.
Bisognava spellarli quei legni, sagomarli arrotondandone le estremità, intagliarne leggermente le due superiori, legare le stesse con filo di ferro ed essiccarle sul focherello di legna secca o sul fornello a gas di casa, se le mamme lo permettevano, fino a far loro prendere la forma voluta, quindi montarle legandone con precisione gli elastici, quelli marroni a sezione quadrata comprati in cartoleria, ed il piccolo lembo di pelle che avrebbe accolto il proiettile.
Se le lucertole erano la preda comune, il ramarro era quella regina, anche perché passeri e affini ben raramente li lasciavano arrivare a tiro. Ma con i grossi rettili non era facile. Innanzi tutto perché molto più rari, diffidenti e veloci, poi perché il loro habitat era costituito da prati, bassa vegetazione ed intricati cespugli dove si nascondevano rapidamente al primo movimento sospetto. Quindi, chi aveva la fortuna di ucciderne uno, veniva considerato all'unanimità il tiratore più bravo.
Ben presto le fionde furono accantonate per lasciare il posto alle carabine ad aria compressa; prima quelle a pallini di gomma e poco dopo quelle a pallini di piombo, decisamente molto più precise ed efficienti. Con questo strumento era sufficiente appostarsi anche a dieci metri di distanza che, era certo, ogni tiro sarebbe stato un centro. Nessun ramarro aveva però fatto parte del suo carniere fino a quel momento e ciò era per lui motivo di rammarico.
Un giorno, percorrendo un sentiero, perfettamente calato nelle vesti del cacciatore di safari, vide uno splendido e grosso maschio posato su di una roccia scoperta, in bella vista, a meno di tre metri, immobile a scaldarsi al sole, finalmente a tiro, e lentamente si portò la carabina alla spalla assaporando già il trionfo con gli amici. Ma nel momento in cui la sua fiera testa squamosa collimò con il mirino, l’animale si accorse di lui e alzando il capo si voltò a squadrarlo. Fu allora che notò i suoi neri occhi intelligenti e senza paura, la sua giogaia gialla rossa e azzurro vivo del periodo degli amori, il suo collo pulsante del ritmo del suo cuore; e il dito indice gli si bloccò. I secondi passarono lenti e quando infine premette il grilletto vide schizzare schegge di pietra e polvere a qualche centimetro dal capo del sauro ed un istante dopo lui non c'era più.
Tornò a casa deluso per la pessima mira e deciso a non farne parola con nessuno, ma quando la sera fu preso da improvviso impulso e cominciò a raccontare tutto al padre, questi sorridendo gli disse con semplicità: - Non hai sbagliato mira, semplicemente non l'hai voluto ammazzare. E non c'è proprio nulla di cui vergognarsi. -
Molti anni più tardi si ritrovò con un amico a cacciare fagiani nei brumosi e sconfinati coltivati di pianura.
Avevano con loro un vecchio e zoppicante bracco, ciononostante ancora incredibilmente efficiente e ridondante di regale dignità, perché il passare degli anni gli aveva donato una saggezza e un’esperienza tali da renderlo perfettamente consapevole della propria bravura. Il magnifico ausiliario si bloccò in ferma ad una trentina di metri da lui con la coda parallela al terreno e la zampa anteriore destra sollevata. Mentre l’uomo si avvicinava gli diede una rapida occhiata e giudicandolo sufficientemente vicino fece un veloce movimento togliendosi dalla linea di tiro e portandosi ad angolo retto rispetto alla retta immaginaria tracciata tra lui e la preda. Quando fu a pochi passi si mosse ancora una volta mettendosi di fronte a lui continuando a guardare fisso una stoppia giusto a metà strada tra i due. Per l’uomo continuò ad essere impossibile scorgere qualcosa di diverso tra quell'erba secca e quelle zolle di terra ma fu sufficiente che sussurrasse un "Vai!" per far scattare il quadrupede ad alzare in volo un magnifico fagiano.
Come diceva il suo caro amico, "...il divertimento finisce quando premi il grilletto...".
Quella stessa mattina una scorribanda del loro compagno a quattro zampe fece partire in corsa sfrenata ad una trentina di metri davanti a loro una gigantesca lepre. Imbracciare la doppietta fu un attimo, mirò davanti all'animale in fuga dando il giusto anticipo e ... non sparò. - Perché non hai sparato! - lo redarguì deluso il suo compagno; - Era fuori tiro…. - rispose. -
In realtà in quella frazione di secondo aveva notato che sulla linea di tiro (a più di cento metri però) vi era una fattoria e si era anche incantato ad ammirare l'eleganza armoniosa della corsa della grossa lepre.
Ma, più di ogni altra cosa, gli era tornato in mente il ramarro.